In studio arrivano persone diverse, per motivi diversi: relazioni sentimentali disfunzionali, problematiche legate alla  famiglia, ai genitori, ai figli, incapacità di gestire le proprie emozioni, ansia eccessiva e altro. Una cosa che, però, accomuna quasi tutti, e scopriamo insieme, nel corso del percorso, a volte anche con incredulità e stupore, è la mancanza di autostima, il non sentirsi all’altezza di essere amati dagli altri, il ritenere qualsiasi cosa si faccia normale e spesso dovuta.
Da dove deriva questa incapacità di darsi il giusto credito? E’ questa la domanda che spesso si chiede la persona dopo aver preso consapevolezza di questa mancanza.
Molto spesso il “sentirsi non amabili”, “non all’altezza se siamo come siamo” è un costrutto che interiorizziamo molto presto nel corso della nostra vita. Le figure a noi vicine fin da piccoli ci educano a quello che sia bene o male fare secondo il loro punto di vista, non considerando le emozioni e i bisogni sottostanti.
Per fare un esempio, l’arrivo di un fratello dovrebbe essere vissuto come un lieto evento nella famiglia, secondo un genitore dovrebbe essere il dare un compagno al proprio figlio, ed è così, ma si dimentica tutta quella sfera emozionale più confusa che attraversa un bambino che attende e poi vive l’arrivo di un fratello. C’è gelosia, paura, a volte anche rabbia; emozioni forti, ma che coesistono e che il genitore spesso non vuol vedere; ecco che se un bambino, toglie il ciuccio o dà uno sbuffo all’ultimo arrivato, l’adulto è pronto a giudicare il gesto come pericoloso e a sgridare il figlio. Manca totalmente la comprensione delle emozioni vissute e la loro esternazione. Ben diverso è dire: “Capisco che sei arrabbiato perché è arrivato qualcuno a condividere i tuoi spazi, i tuoi giochi, mamma e papà, ma se fai così lui sente male”, piuttosto che: “Gli fai male, non farlo più!”. Questo non accade, un messaggio, come il secondo, privo di empatia e comprensione implicitamente comunica al bambino che non può essere quello che è, che non può vivere quelle emozioni, perché altrimenti non verrà amato dai suoi genitori.
Questo è solo un esempio, il cui meccanismo si reitera nella vita di molte persone: genitori, insegnanti, compagni, figure importanti che ci dicono come secondo loro dovremmo agire, senza provare a mettersi nei nostri panni. E’ inevitabile pensare che fare come dicono loro ci porta ad apparire in modo favorevole ai loro occhi, ci amano, ci stimano; e forse, noi non siamo, poi, in grado di decidere da soli, o sicuramente sceglieremmo il peggio. Questo modo di vivere ci porta a non fidarci più di noi stessi, a non sentirci in grado di scegliere, a sottovalutarci, a dimenticarci di esistere.
Durante il percorso psicologico la gente scopre presto di non volersi bene, di pensare più a far stare bene gli altri che se stessi, a vedere i dolori degli altri più gravi e profondi dei propri.
Da una seduta alla successiva inizia un percorso di ascolto dei propri bisogni e delle proprie emozioni, una presa di consapevolezza di ciò che ci fa stare bene e ciò che ci fa stare male; torniamo ad essere il centro della nostra vita, la nostra bussola, capiamo che non occorre essere come gli altri ci vogliono per essere amati.
Molti, soprattutto le donne, raccontano di iniziare a farsi le proprie ragioni, di iniziare a confrontarsi con gli altri, prendendo posizione in modo autonomo perché sentono di valere anche loro, legittimando le proprie scelte. Si sperimentano in questo e vedono buoni risultati: paradossalmente la comunicazione con le altre persone diventa più autentica, non si tiene nascosto quello che siamo e sentiamo, spesso l’altro comprende ed accetta la nostra idea. L’autostima inizia a nutrirsi di questi successi, ce ne appropriamo. Imparando ad ascoltare noi stessi ci vogliamo più bene e di riflesso anche gli altri ci amano, se riescono a comprendere.
Un aiuto psicologico può aiutare persone adulte a ri-volersi bene e a ri-fidarsi di se stesse, ma si può lavorare anche sull’autostima dei più piccoli, di modo che si possa prevenire questo stato di alienazione da noi stessi. Come? Se i messaggi delle persone importanti nella vita di un bambino sono così vincolanti nel creare questo malessere, come si diceva poco sopra, sono proprio queste figure a dover cambiare il loro modo di porsi. Devono imparare a comprendere ciò che vive il bambino nella quotidianità; non esiste solo la felicità, ma anche la tristezza, la rabbia, e altre mille sfumature. Possono imparare a esplicitare tutto questo, senza negarlo, creando una vicinanza,
un’empatia che legittimi il piccolo a provare tutto ciò, a viverlo senza sentirsi “cattivo, e non amabile”; il messaggio implicito che deve passare è: “Vai bene come sei”, “Vanno bene le scelte che fai perché senti che sono giuste per te, ed io le accetto”. Un bambino che cresce in un ambiente così rassicurante, sicuro, incoraggiante, coltiverà le sue emozioni, le sue idee, le sue decisioni. Avrà stima di sé, si sentirà amato e si amerà lui per primo.

Monica Cerruti
Psicologa Psicoterapeuta

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